Parlare di sé e della propria attività è un fattore di fondamentale importanza per le aziende come per le persone. Ma se narrare è un’esperienza innata nel genere umano, questo di certo non basta. Per diventare storyteller è necessario perfezionarsi e svolgere un lungo percorso di studi e di pratica.Avevano ragione i nativi Americani: «Coloro che raccontano le storie dominano il mondo». Una massima valida ancora oggi, dove tutto è narrazione. Dalle imprese al mondo scientifico, lo storytelling è diventato una regola comune per avere una maggiore efficacia nella comunicazione. Meglio di dati e statistiche. E i nuovi mezzi digitali aiutano a perfezionare questo approccio, come racconta Andrea Fontana, docente di “Corporate Storytelling” all’Università di Pavia e presidente di Storyfactory, azienda che si occupa di aiutare marchi, aziende e persone a raccontarsi. «La tecnologia», dice, «sta cambiando in maniera significativa il nostro modo di raccontare, ma non i princìpi cardine della nostra professione».

Per comprendere però questa professione, il suo presente e il suo futuro, va fatto un passo indietro e capito cosa è lo storytelling. «Non è più una semplice disciplina, è il contesto di vita e di lavoro nel quale noi tutti esistiamo. Dalle video-novel di Youtube alle Instagram Stories, dalle narrazioni di marca al brand journalism: oggi viviamo in un flusso incessante di contenuti e informazioni per lavorare, giocare, formarci e distrarci», evidenzia Fontana.

Un flusso continuo in cui è spesso difficile districarsi: Instagram conta quasi 95 milioni di foto postate nell’arco di 24 ore e 3,5 milioni di azioni e like aggiunti ogni giorno, mentre su Tik Tok vengono pubblicati 236 video ogni minuto.

Un vero e proprio «assedio» narrativo. «Per questa ragione serve lo storytelling, perché permette di avere una serie di strumenti che permettano alle aziende di farsi ascoltare e di coinvolgere emotivamente i rispettivi pubblici di riferimento, aumentando contestualmente il valore del proprio brand e dei propri prodotti. In questo modo le imprese riescono anche a condividere esperienze e prassi di lavoro interne e a ottimizzare la propria reputazione online», conclude Fontana.

Ormai un’azienda non è più vista come una sorta di “istituzione” data per sempre ma come un’esperienza umana e personale. Parlare di sé e della propria attività è un fattore di fondamentale importanza per le aziende come per le persone visto che, in caso contrario, c’è il rischio che a farlo sia un competitor, un detrattore o semplicemente qualcuno che non ti conosce bene.

A cambiare tutto è intervenuta la tecnologia. «Ogni nostro gesto di consumo culturale, fisico, emotivo dipende da trame narrative online e offline, da narrazioni frammentarie o complete. La tecnologia ha cambiato l’insieme delle nostre conoscenze, ma resta un semplice mezzo. Il vero tema è la “fiction economy”, il fatto che ormai viviamo in una realtà e in una economia dove la parte simbolico-tecnologica, emotiva e valoriale del reale e delle cose ha la meglio su quella utile e funzionale. E questo rivoluziona tutto, anche il mondo dello storytelling», sottolinea Fontana.

La ragione è chiara. «Ormai un’azienda non è più vista come una sorta di “istituzione” data per sempre ma come un’esperienza umana e personale. La differenza viene quindi fatta dal racconto aziendale che si è in grado di costruire intorno a fattori come la propria figura, la propria impresa o i propri prodotti o servizi», conclude Fontana.

Per questo anche le imprese devono sapersi rivolgere al proprio pubblico e per farlo serve l’aiuto del digitale. «In qualche modo le nuove tecnologie hanno contribuito a creare il mio lavoro», spiega Daniele Orzati, storyteller e Head of Strategy di Storyfactory. «Prima, quando i mass media facevano il bello e il cattivo tempo, bastava un solo contenuto di vendita: orizzontale, immediato, attraente. Oggi, se voglio utilizzare i canali di comunicazione a disposizione, social in primis, devo offrire ricchezza di informazione, di contenuti, di racconti. E questi canali non sono più unidirezionali, c’è una necessaria interazione con il pubblico».

E se narrare è un’esperienza innata nel genere umano, questo di certo non basta. «Per diventare storyteller è necessario perfezionarsi e svolgere un lungo percorso di studi e di pratica. Ricordo ancora quando ho iniziato all’Università di Pavia, un momento in cui non erano ancora nati i social media: l’attività rispetto ad oggi era molto diversa. Da allora ho formato molti che oggi sono esperti e ho avuto l’occasione di creare percorsi di specializzazione sia all’Università di Pavia che in altre istituzioni universitarie italiane», ricorda Fontana.

Dopo un percorso teorico, fatto spesso di corsi di laurea specifici o attività di formazione anche online, si arriva a una fase pratica. In molte aziende la funzione di storyteller viene svolta da un content creator o da specifici consulenti, che spesso vengono assunti direttamente dalle aziende o da agenzie di comunicazione.

Oggi le persone tendono sempre più a scegliere un prodotto se l’azienda che lo mette sul mercato è un’azienda etica, attenta, capace di andare oltre la sola logica di profitto spiega Orzati. Ecco perché «anche per le aziende più conosciute sul mercato, lavoriamo raccontando i loro comportamenti virtuosi sui giornali, sui canali digitali e anche dal vivo».

Il cambiamento è ormai irreversibile. Per questo diventa fondamentale puntare sulle competenze e sulle professioni in grado di dominare il trend, dal content manager al podcast producer, portando crescita e innovazione in un settore che nei prossimi anni diventerà sempre più importante nelle strategie di aziende e brand.

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